5 maggio

5 maggio

Giornata memorabile… esattamente due secoli fa nasceva Karl Marx. Il 5 maggio 1821 moriva Napoleone. Impossibile parlare di questi due giganti, nel bene e nel male, in poche righe. Su di loro sono stati scritti migliaia di libri e i giudizi sono contrastanti a seconda della prospettiva storica-politica di chi scrive. In futuro proverò a buttar giù una scheda storiografica su entrambi. Oggi mi accontento di ricordarli brevemente per ciò che hanno rappresentato nella mia vita e per una generazione che ha avuto il privilegio di poter studiare seriamente e di sperare in un futuro decente, al contrario di quanto accade in genere ai nostri figli, stretti, tranne rare eccezioni, tra scuole inefficienti, lavori precari, incertezze esistenziali.

Di Marx ho sempre ammirato la tensione etica e il desiderio di offrire dignità ad ogni essere umano. Non è sua responsabilità l’interpretazione scorretta dei suoi scritti da parte di dittatori e altri criminali del Novecento. Gli scritti di Marx vanno letti attentamente e offrono una lucidissima analisi del reale. Mi pare che il pensiero marxiano sia sempre meno conosciuto mentre imperversa la banale vulgata… in linea con la sciatteria dei tempi.

Napoleone rappresenta il merito, la possibilità di affermazione anche per chi non nasce nobile e ricco, attraverso l’istruzione e lo studio, le capacità individuali. Commette molti errori ed alcuni criticano il suo cesarismo. A me affascina più il mito Napoleone che non l’uomo reale, ciò che ci hanno tramandato romanzieri e scrittori, da Stendhal a Dumas, ciò che ha rappresentato per milioni di diseredati e disgraziati. Si ama Napoleone leggendo “Il Rosso e il Nero” e “Il Conte di Montecristo “. Mi piace pensare a Victor Hugo che parla a centomila francesi sotto una pioggia torrenziale il giorno della restituzione della salma dell’Imperatore alla Francia.

Per oggi tutto qui. Si diffida chiunque dalle polemiche… sarebbero scontate e banali; mi preme soltanto ricordare l’importanza del 5 maggio. Le critiche e gli elogi su questi due giganti esigono migliaia di pagine… in ogni caso sono padri nobili del nostro mondo, accomunati dall’idea della dignità che ogni uomo deve possedere indipendentemente dai propri natali. Entrambi mettevano la scuola e lo studio al primo posto, entrambi sapevano che senza scuola pubblica di alto livello non esiste futuro decente.

J.V.

Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza Di Claudio Pavone. Nuovo blog nicoloscialfa.it

Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza

Di Claudio Pavone

A oltre mezzo secolo di distanza è ormai convinzione comune che occorra un ripensamento della Resistenza, sulla quale tutti mostriamo troppo facili certezze. Si tratta, soprattutto, di riconoscere a questi fatti la loro dignità di grande evento storico, sottraendoli ai ricorrenti rischi della retorica celebrativa o alle strumentalizzazioni di parte spesso riduttive e liquidatorie. Il libro affronta temi cruciali legati al passaggio dall’Italia fascista all’Italia del dopoguerra visti sotto il profilo della “moralità” operante nei protagonisti. Nell’analisi degli eventi tra il settembre 1943 e l’aprile 1945, Claudio Pavone distingue tre aspetti: la guerra patriottica, la guerra civile e la guerra di classe – «tre guerre» che sono spesso combattute dallo stesso soggetto – introducendo così una novità interpretativa in grado di cogliere tutte le sfumature e di attraversare orizzontalmente una realtà storica di estrema complessità. Gli argomenti presi in esame – tra i quali l’eredità della guerra fascista, il dissolversi delle certezze istituzionali, le fedeltà e i tradimenti, il valore fondante della scelta, il rapporto fra le generazioni, l’utopia e la realtà, il grande nodo del la violenza – ci costringono a riflettere su alcune questioni brucianti e sempre attuali, prima fra tutte quella del rapporto tra la politica e la morale nella vicenda storica. (Dalla prefazione)

Claudio Pavone muore a novantasei anni, nel novembre 2016. Archivista, associato all’università di Pisa, partigiano, intellettuale fuori dagli schemi, profondo conoscitore della macchina dell’amministrazione statale, uomo lontano dalla retorica, pragmatico ed intellettualmente onesto. Il libro suscita polemiche per la nozione di “guerra civile”, distante dalla vulgata sovietica di “guerra patriottica”, ma grazie a Pavone il dibattito sulla Resistenza assume maggiore dignità. Secondo l’ex comandante partigiano Nuto Revelli, che – pur elogiandolo come «un lavoro straordinario che ci ha liberati da tutta la retorica che si era depositata sulla resistenza», sostiene « Non fu una guerra civile nel senso pieno del termine perché i fascisti per noi erano degli stranieri come e forse più dei tedeschi, li odiavamo più di quanto non odiassimo i tedeschi. […] Perché in loro c’era una ferocia, se è possibile, ancora più insensata; era inconcepibile che degli italiani si degradassero fino a terrorizzare, torturare, ammazzare gente che magari aveva le stesse radici, con la quale erano cresciuti assieme. » ma in realtà in questo modo Revelli, inconsapevolmente, rafforza la tesi di Pavone. Mentre Vittorio Foa condivide l’impostazione dell’autore «Sono sempre stato irritato di fronte a chi negava il carattere di guerra civile alla lotta partigiana. Diversamente da altri che avevano drammaticamente scelto durante quei mesi se fare il partigiano o meno, io avevo già scelto. Per me i fascisti esistevano già prima e non erano semplici marionette dei tedeschi».

Al netto delle critiche positive e negative siamo di fronte ad un’opera importante per comprendere la nostra Storia, riflettere sull’uso strumentale del passato e capire che il nostro futuro può fondarsi soltanto su un serio dibattito storiografico e non su slogan e pregiudizi.

Segnalo alcuni film sulla Resistenza. Elenco scarno e scontato ma sempre attuale:

Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini

Con Anna Magnani, Aldo Fabrizi, Maria Michi, Marcello Pagliero, Nando Bruno

Paisà (1946) di Roberto Rossellini

Con William Tubbs, Harriet White, Gar Moore, Carmela Sazio, Dots M. Johnson

Achtung! Banditi! (1951) di Carlo Lizzani

Con Gina Lollobrigida, Andrea Checchi, Lamberto Maggiorani, Vittorio Duse, Pietro Tordi

Il generale Della Rovere (1959) di Roberto Rossellini

Con Vittorio De Sica, Sandra Milo, Vittorio Caprioli, Hannes Messemer, Giovanna Ralli

Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini

Con Alberto Sordi, Eduardo De Filippo, Serge Reggiani, Martin Balsam, Nino Castelnuovo

Le quattro giornate di Napoli (1962) di Nanni Loy

Con Gian Maria Volonté, Aldo Giuffré, Lea Massari, Jean Sorel, Georges Wilson

La notte di San Lorenzo (1982) di Paolo e Vittorio Taviani

Con Omero Antonutti, Claudio Bigagli, Margarita Lozano, Massimo Sarchielli, Graziella Galvani

I piccoli maestri (1997) di Daniele Luchetti

Con Stefano Accorsi, Stefania Montorsi, Marco Paolini, Giorgio Pasotti, Diego Gianesini

Il partigiano Johnny (2000) di Guido Chiesa

Con Andrea Prodan, Stefano Dionisi, Claudio Amendola, Alberto Gimignani, Fabrizio Gifuni

L’uomo che verrà (2009) di Giorgio Diritti

Con Alba Rohrwacher, Maya Sansa, Claudio Casadio, Greta Zuccheri Montanari, Stefano Bicocchi

J.V.

I Barbari. Ricordo il nuovo blog nicoloscialfa.it

I Barbari

Völkerwanderung (migrazioni di popoli) o invasioni barbariche? Tacito, Germania, li descrive come modello di stile di vita semplice e non corrotto dalla civiltà mediterranea. Costruzione ideologica sposata anche da Montesquieu e poi dai Romantici, dai nazionalisti tedeschi antimoderni e militaristi del novecento per giungere ai nazisti e alle loro funeste teorie sulla presunta superiorità della razza tedesca che ebbero come conseguenza la Shoah. Come si vede la Storia è sempre Storia Contemporanea.

Quali sono le fonti delle culture barbariche? Traduzione gotica della Bibbia del vescovo Ulfila nel IV secolo recepita da Teodorico nel VI secolo (Codex argenteus). Il goto Jordanes, sempre nel VI sec., il burgundo Fredegario nel VII, l’anglosassone Beda e il longobardo Paolo Diacono nell’VIII. Tutti questi storici adottano il latino e il punto di vista dei classici. Soltanto più tardi nasceranno Beowulf e le saghe nordiche, l’Edda e gli eroi pagani. In realtà ciò che sappiamo sui Barbari è di derivazione greco-latina. Barbaro (straniero) selvaggio, sporco, nomade, puzzolente è lo stereotipo. Secondo la vulgata bevono sangue e sono coraggiosi ma temerari e vengono sconfitti dalle legioni romane organizzate e disciplinate. Oppure vengono descritti come nobili selvaggi dotati di virtù primordiali dell’anima del popolo (Volksseele). Sono costruzioni stereotipate. In realtà lo studio delle tombe dimostra che i barbari si circondavano di oggetti non differenti da quelli delle classi dirigenti romane. La frontiera non era invalicabile, era più simbolica che reale, linea militare ma anche zona di scambio e di fascinosa attrazione. Un sistema dinamico di interazione, relazioni ed alleanze, assimilazione e mutamento di usi e costumi. Un popolo come unità linguistica e culturale ben delineata rappresenta l’eccezione, non la norma. Archeologia e filologia non attribuiscono i propri materiali a raggruppamenti umani “naturali”. Cos’è un popolo? Una realtà soggettiva. I Germani forse non sono mai esistiti e se esistevano non corrispondono a ciò che chiamiamo così. Il termine “Germani” viene coniato da Giulio Cesare. Prima di lui esistevano soltanto celti e sciti. Cesare ha interesse per motivi politici e di conquista ad accentuare le diversità e le conseguenti paure. Nascono così i Germani, soprattutto su base linguistica. In epoca carolingia si ha coscienza che le lingue germaniche sono apparentate. Questa lingua vernacolare viene chiamata Teotisca, che significa popolare, e da qui deriva tedesco, termine che designa tanto gli anglosassoni che i longobardi. Rotture e contraddizioni impediscono uno sviluppo diretto dai Germani antichi ai moderni. Differenti terminologie. Gli inglesi chiamano Germans i tedeschi, malgrado essi stessi siano prevalentemente di origine germanica; i francesi e gli spagnoli li chiamano allemands dal nome di uno dei principali popoli tedeschi, gli Alamanni; gli slavi usano il termine Nemeci, muti, in contrapposizione con gli slavi stessi, coloro che parlano. Le etnogenesi sono complesse. Secondo la Bibbia tutti i popoli del mondo derivano dai tre figli di Noè. Nel Medioevo sorgono le leggende più disparate sull’origine dei popoli. Una discussione ancora aperta. Meccanismi di memoria e oblio, Storia e invenzione, letture ideologiche dove si incontrano storia medievale ed esigenze del presente. Illuministi e Romantici scorgono la società democratica nei Germani. Engels parla di passaggio dall’Urkommunismus (Comunismo primitivo) alla democrazia militare. In genere nell’Ottocento si contrappone la libertà germanica alla schiavitù romana e si parla di Genossenschaft (società coesa e sacrale) con due re, uno sacrale, Sakralkönig, uno militare sul tipo di Ariovisto o di Arminio. In realtà questi sovrani esercitavano un potere militare autoritario e protettivo su clientele, parentele, clan e le alleanze di queste famiglie erano assai mutevoli.

I movimenti di Barbari iniziano nel III secolo vicino alla Vistola, dove sono stanziati i Goti. Si spostano a sud verso l’Ucraina. Saccheggiano i Balcani e l’Asia minore. Nel 375 sconfiggono gli Unni, attraversano il Danubio e arrivano in Italia. Alarico mette a sacco Roma nel 410, Teodorico giunge nel 489 e fonda il suo regno con capitale Ravenna. Un altro popolo che giunge dai Carpazi sino al Mediterraneo è quello dei Vandali. In Germania occidentale si trovano Franchi ed Alamanni, a nord e sud del Meno. Il regno unitario Franco nasce su suolo romano con Clodoveo, governatore franco della provincia Belgica. Il battesimo di Clodoveo è datato nel 496, chiaro segno simbolico di integrazione, enfatizzato nel 1996 da Parigi in occasione del supposto millecinquecentesimo anniversario della conversione.

Dietro Franchi ed Alamanni troviamo altri popoli: Longobardi che giungono in Italia nel 568, Turingi, futuri alleati di Teodorico, Burgundi. Dal VI secolo inizia il consolidamento etnico dei popoli sottomessi dai Franchi. Il risultato è la nascita del popolo francese, mentre, a partire dal X secolo, nella parte germanica del regno franco si consolidano bavaresi, alamanni e sassoni. I sassoni si dirigono in Britannia e sostengono le popolazioni celtiche romanizzate contro i Picti scozzesi. Nascono i regni germanici in Britannia: Wessex, Mercia, Northumberland. L’Irlanda pagana viene evangelizzata da San Patrizio nel V secolo. L’attività missionaria tra VI e VIII secolo sarà massiccia in Europa centrale. In Scandinavia, terra originaria di Goti e Longobardi, i pirati vichinghi dall’VIII secolo iniziano la loro attività predatoria. Nelle immense steppe euroasiatiche dalla Cina ai Carpazi, sino all’Ungheria, si sviluppa il nomadismo basato sul cavallo. Emerge la figura terribile del guerriero della steppa, spietato e crudele, abilissimo cavaliere. Questi eserciti di guerrieri nomadi fondano imperi anche vastissimi ma poco longevi a causa di mancanza di serie strutture. Attorno al 450 gli Unni di Attila dominano l’Europa orientale e vivono grazie ai tributi pagati da Roma. Dopo la morte di Attila l’impero unno crolla miseramente. Stessa sorte spetta agli Avari, anche se sopravviveranno sino al tempo di Carlomagno. Da ricordare infine la lenta e massiccia espansione degli slavi. Tra il VI e il VII secolo assistiamo alla romanizzazione dei barbari e alla loro integrazione nelle strutture politico-istituzionali romane in Spagna e Gallia e Italia. In Europa centrale e orientale le popolazioni romane si barbarizzano. Una nuova civiltà sta maturando: l’Europa medievale.

J.V.

La caduta dell’impero romano. Ricordo nuovo blog nicoloscialfa.it

La caduta dell’impero romano

Dopo Teodosio parte occidentale sempre più in crisi. Non vi è percezione del mutamento in un mondo lento. Noi siamo abituati alla velocità scatenata dalla rivoluzione industriale, gli antichi vivono in un mondo lento. Lento ma non immobile. Esiste cospicua differenza tra l’età di Antonino Pio e quella di Romolo Augustolo (ironia della Storia, primo re e primo imperatore). Piano piano però cresce la consapevolezza del tramonto, della fine di un mondo. L’Italia paga il prezzo più alto tra V e VIII secolo. Campagne incolte e deserte, città spopolate, Roma passa da un milione di abitanti a 20.000 anime vaganti tra le macerie. L’Occidente perisce, l’Oriente si salva per ancora un millennio. I barbari oltrepassano il limes, i Visigoti saccheggiano Roma nel 410, Agostino percepisce la fine del mondo. Il 476 è una data simbolica che indica la morte della parte occidentale. Crisi iniziata nel III secolo. Sforzi di Aureliano, Diocleziano, Costantino, tentativo coraggioso di Giuliano, presa d’atto di Teodosio. Imperium Romanum Christianum. Decadenza spiegata da Gibbon, Taine, von Wilamowitz, Rostovzev con occhi puntati sul loro tempo (la Storia è sempre storia contemporanea). Scrivono della fine di Roma ma pensano pessimisticamente alla fine del loro mondo. Poi scontro nazionalista tra il francese André Piganiol (Impero Romano ucciso dai barbari come la Francia occupata dai nazisti) “La Civilisation romain n’est pas morte de sa belle mort. Elle a été assassinée” e Cartellieri sostenitore della superiorità teutonica.

Poi un bellissimo libro sbagliato di Henri Pirenne, Maometto e Carlomagno. Poi la definizione di mondo tardo antico che attenua la frattura tra mondo Antico e Medioevo. Perché, si chiedono Rostovzev e Walbank tra gli altri, l’impero degli Antonini non è proseguito linearmente sino al XX secolo? E abbiamo invece avuto decadenza, Medioevo, Rinascimento e mondo moderno? Rostovzev è un esule russo in fuga dagli orrori della guerra civile, pessimista e disilluso; Walbank un marxista inglese convinto, dopo la seconda guerra mondiale, di trovarsi agli albori di una nuova epoca. Eppure i due sono in linea su un punto: perché non fu possibile un passaggio graduale? Perché si produsse la catastrofe? Instaurazione del Principato e sistema di produzione schiavile sul banco degli imputati. Costruzione di un ordine universale costosissimo, modello aristocratico poco virtuoso e parassitario legato alla rendita. Anelasticitá strutturale e conseguente frattura.

Guerre difensive con rara eccezione di Traiano. Una catastrofe al rallentatore. Universalismo imperiale insostenibile, stallo produttivo. Storia di Roma che si avvia a divenire storia d’Europa. Percezione della crisi e della fine del mondo condivisa da pagani e cristiani. Storia, escatologia e profetismo viaggiano nella stessa direzione. Chiusura imperiale, grandezza in forme chiuse, schiavi, tecnologia insufficiente, visione ciclica della storia. Marx descrive la bellezza della durata del mondo antico in pagine stupende. Ma quella bellezza è anche il limite degli antichi romani: il loro limite è il margine estremo del Tempo e della Storia. Un grande stato assolutistico, militare, burocratico; una macchina pesante e difficile da gestire come ben capiscono alcuni grandi imperatori. Cristianesimo postcostantiniano e dualismo del potere, controllo dei vescovi sulla macchina, codice Teodosiano potente divaricatore tra classi aristocratiche e sudditi. Cristianesimo soteriologico e dottrina alternativa alla forza del diritto romano… In hoc signo vinces. Il dualismo resiste ancora oggi: anima e corpo, da Paolo a Cartesio, da Agostino a Kant (e non si illudano i fanatici del Progresso… extra Epistemologiam nulla salus). Leggerezza dell’io opposta alla pesantezza del corpo, residui platoniani e plotiniani. Cristo erede dello spiritualismo idealistico classico. Il nodo diviene inestricabile e ancora oggi non riusciamo a scioglierlo.

Fine dell’unità mediterranea. Dopo il collasso del V secolo il Mediterraneo diviene un confine, un limite. Occidente e Oriente si divaricano, l’unità si rompe definitivamente. La catastrofe occidentale indirizza verso la Modernità, Oriente verso l’Islam e Bisanzio. Due idee restano vive in Occidente: città e Italia. Da queste due forme mentali si ricomincia.

J.V.

Voltaire

Voltaire

Uomo dei lumi per eccellenza. Arguto, pungente, scaltro, ipocrita, ottimo propagandista di se stesso. Ogni tanto lo rinchiudono alla Bastiglia, lo mandano in esilio e bruciano i suoi scritti. Alla Bastiglia pranza col direttore, in esilio sta poco e i libri li riscrive. Spesso cerca lo scandalo gratuito, è sufficientemente frivolo e malvagio per galleggiare nel mare agitato dell’Europa settecentesca.

Ambiguo e bugiardo, viene superato in antipatia soltanto dal grottesco bugiardo seriale Rousseau. Conduce vita assai disordinata, litiga con tutti, intreccia innumerevoli storie d’amore con nobildonne, attrici, brave ragazze borghesi, mogli di amici e persino con la nipote. Per mantenere tale ipercinetismo mondano abbisogna di denaro. Dilapida il patrimonio paterno, contrae numerosi debiti, poi accumula sostanze ingenti in modo poco trasparente sino a possedere un castello con seguito di 160 servitori.

La sua fama cresce a dismisura anche grazie al suo rapporto col despota illuminato Federico il Grande (litigherà anche con lui).

Guida spirituale del suo secolo, gode di giudizi lusinghieri dei più. Parla e scrive su qualsiasi argomento (ci restano oltre ventimila lettere di suo pugno), compone opere teatrali, apparentemente proibite, in realtà osannate dal pubblico. I suoi romanzi vendono parecchio. Combatte per la libertà di pensiero, la tolleranza, la pace, l’abolizione dell’ingiustizia.

Un portatore di luce. Secondo Nietzsche “il massimo liberatore dell’umanità “. Il povero Friedrich, timido e sincerone, è l’opposto di François Marie Arouet, al secolo Voltaire ma, nella sua fase illuminista, lo esalta come liberatore dell’umanità e nemico della Chiesa. “se credete che Dio vi ha fatti a sua immagine e somiglianza, ricambiatelo con la stessa moneta: fatevi un dio a immagine e somiglianza vostra, con le perfidie e i difetti vostri: potente, vendicativo, egemone, avido di potere, ambizioso. E quanto più ne sarete convinti, tanto più vi calzerà a pennello, scolorando ed estinguendo dentro di voi il precedente… il fanatismo è un mostro che osa definirsi figlio della religione… la tolleranza non ha mai provocato una guerra civile; l’intolleranza ha coperto la terra di massacri… se si osserva questa dottrina (il cristianesimo) dal punto di vista filosofico, essa è sicuramente mostruosa e riprovevole, perché fa di Dio la malvagità in persona”. Questi sono rapidi assaggi di ciò che Voltaire pensa del cristianesimo e della religione in genere. Lotta contro la superstizione e il fanatismo. Ésacrez l’infâme è il suo grido di battaglia. Autoconsapevolezza del “grande sovversivo”. Preparazione del regno della ragione. Voltaire non è ateo ed è convinto della necessità di credere nell’essere supremo. Il suo Dio non è quello della Bibbia ma un Dio che non ha bisogno di rivelarsi all’uomo. “Esiste qualcosa, dunque esiste qualcosa di eterno, dato che niente proviene dal nulla… le molte leggi immutabili fanno supporre l’esistenza di un legislatore “. Tutto ciò gli viene confermato dagli studi e dalle scoperte di Newton. Dio come intelligenza, grande spirito che riempie l’universo. La sua è una concezione edonistica di Dio “Mi meraviglio che, tra le tante dimostrazioni che si danno circa l’esistenza di Dio, non sia mai stato contemplato il piacere; il piacere è qualcosa di divino, e ritengo che chiunque beva un buon Tocai o baci una bella donna, in una parola abbia sensazioni piacevoli, debba riconoscere l’esistenza di un supremo essere caritatevole”. Dopo il terribile terremoto di Lisbona Voltaire rafforza i suoi dubbi e lo scetticismo sulla natura fredda e crudele del mondo. Ovunque scorge sofferenza e dolore “un diluvio di mali in cui affoghiamo”.

La Storia è il teatro dell’orrore, una cloaca di miseria e crudeltà. Il mondo, al contrario di quanto sostiene Leibniz, è “la peggiore sfera esistente”. La felicità è soltanto un sogno, soltanto il dolore è reale. Si Deus unde Malum? Torna con forza il problema della Teodicea. “Non intendo indagare se il grande architetto del Mondo sia buono; mi basta sapere che esiste”. La vita è noia e vendita di fumo. L’attivismo frenetico si trasforma in consapevole rassegnazione filosofica. Sic transit gloria Mundi!

Viene sepolto tra i grandi di Francia al Pantheon.

J.V.

Tucidide, La guerra del Peloponneso

Tucidide, La guerra del Peloponneso

Erodoto è il padre della storiografia, Tucidide è il padre della storia in senso stretto. Asettico, per quanto è possibile, racconta le gesta degli uomini senza intervento degli Déi. La sua opera è il modello di chiunque voglia scrivere di Storia rigorosamente. Lettura non semplice, ardua, che esige grande attenzione, obbligata per chi voglia far politica. Sintesi magistrale di acume, intelligenza, comprensione della tragedia umana, crisi della democrazia. Opera, come tutti classici, di attualità sconvolgente. La sanguinosa e terribile guerra civile (orribile come tutte le guerre civili) che sconvolge la Grecia intera dal 431 al 404 e che pone fine alla grecità classica, viene descritta come una immane e spaventosa tragedia fratricida (Europa nel secolo scorso?).

Otto libri descrivono la crisi della democrazia e prevedono la sottomissione al macedone. Tanto Erodoto è celebrativo quanto Tucidide è didascalico, spiega che violenza chiama violenza e vuole ammonire a non commettere più errori con la coscienza che non sarà così. Un senso di cupio dissolvi pervade tutta l’opera con toni non ingenui ma tragici e dagli esiti funesti. Tono scarno e neutrale come ho già detto ma non per questo distaccato: la sofferenza dell’autore è notevole come quella di uno spettatore impotente che vive tutto ciò che guarda con profonda amarezza. Analisi rigorosa delle fonti, poco spazio per le semplici opinioni (maledette opinioni… prima di parlare bisogna studiare e pensare), metodologia tesa alla ricerca del Vero, principio di causalità, considerazione soltanto delle cause immanenti e che riguardano esclusivamente politica ed etica. Vero e proprio trattato di passioni politiche dal momento che è l’uomo a muovere la Storia, con la sua tendenza alla sopraffazione, all’arroganza e alla smania di potere. Vince il più forte ma è come se non vincesse nessuno. Visione potentemente pessimistica (potrebbe essere diversamente?) che descrive la guerra come la fucina degli aspetti peggiori e più brutali dell’uomo…

Alcibiade non rispetta la pace di Nicia per semplice ambizione e genera orrore continuo, azioni scellerate, uomini che si trasformano (o forse sono) mostri. Non vi è moralismo banale come nell’historia magistra vitae di Cicerone, ma rigorosa e terribile sofferenza per la stolta condizione umana.

Consigliato a tutti ma in particolare a quanti pensano che la Politica sia una cosa semplice o, peggio, che la vita sia una cosa semplice… studiare Storia non elimina la sofferenza però ci consente di soffrire ad un livello più alto.

J.V.